Menu principale:
BRIGHT STAR : di Maria Pia Pallotta
Per gentile concessione della Casa Editrice "Il Rosso e il Blu" di S. Maria Maggiore (VB). Il racconto, secondo premio al Concorso Letterario 2010 "Andrea Testore- Salviamo la montagna" è stato scritto da Maria Pia Pallotta Parlanti e pubblicato sul testo "Antologia della montagna".
Bright Star
L'aereo tardava a partire. Avevo il naso incollato al finestrino: avrei rivisto le mie montagne, magari anche il Veglia... Beh no, proprio la mia baita no, ma il Leone, il Terra Rossa e il Rebbio forse sì...
Era la prima volta che sentivo nostalgia per il ticchettio della pioggia sul tetto verde di lamiera, per il profumo di legna di larice e resina, persino per l'odore di stalla che saliva a tenermi calda nel pagliericcio di foglie di faggio. Risentivo i campanellini delle caprette che, al tramonto, ritornavano alla casella volando giù dal pendio, come indiani all'assalto, facendo svolazzare le gallinelle americane e le poco pacifiche oche.
Con la coda dell'occhio avevo visto il ragazzino con cui avevo cantato e suonato la chitarra per dieci giorni sul ponte della nave a Rotterdam, prima che a gruppi fossimo trasferiti all'aeroporto di Orly. La vecchia Ryndam infatti, stufa di portare fino ai piedi della statua della libertà stuoli di emigranti dai fagotti pieni di sogni, dopo una partenza trionfale, stile Titanic, con stelle filanti, orchestrina sul ponte e grandi sventolii di fazzoletti, si era fermata dopo due sole ore di navigazione.
I mille studenti europei in partenza per l’America erano stati "costretti" a restare in Olanda per dieci giorni, alloggiando in cabine dai minuscoli letti a castello, come quelli dei rifugi alpini. Giorni di scorribande tra i canali e ceramiche bianche e blu (uguali agli šcuilitt della paltrè:ra...), lavori di gruppo con gli altri vincitori di borse di studio e tante canzoni alla sera, sotto un cielo trapuntato di stelle così vicine da sentirle quasi sulla pelle, come a Veglia nella notte di san Lorenzo.
Armin si era diretto verso la cabina di pilotaggio stringendo con cura la sua Ramirez. Che peccato! Non avremmo viaggiato vicini...
Non avevo mai volato prima di allora, ma non avevo paura. Avevo imparato a non temere il vuoto a sette anni, quando il mulo dei D’Andrea mi portava da Gebbo a Veglia come un sacco di patate (a cui per altro facevo da contrappeso) e il vallone si snodava sotto di me con il bianco delle slavine non ancora sciolte. No, paura non ne avevo, ma... come diavolo si apriva il tavolino per mangiare? Troppo orgogliosa, come tutti i montagnini, per chiederlo agli altri che già lo avevano fatto. Io poi ero finita vicino all’uscita di sicurezza e davanti non c’era lo schienale di un altro sedile. Intanto il 36F accanto a me restava libero...
Ero troppo presa ad armeggiare intorno al bracciolo per accorgermi che Armin, depositata le sua preziosa chitarra, stava tornando indietro per sedersi proprio di fianco a me.
«Ciao, Bright Star, siamo di nuovo insieme! Se vuoi, puoi anche incominciare ad organizzare un altro spettacolo musicale, roba per aereo. Io ci sto!»
«Piantala di chiamarmi gbright starh... anche perché non mi hai mai detto cosa vuol dire!»
«Conosci John Keats?»
«No. Era sulla nave con noi?»
Un sorriso maliziosamente divertito, ma luminoso e soffice come gli anemoni peluccosi di primavera e due occhi chiari chiari, come i non-ti-scordar-di me cresciuti all’ombra, mi avevano accarezzato dai capelli ai piedi mentre apriva il famoso tavolino che era infilato a lato del sedile... (ma non potevo pensarci da me senza fargli capire che venivo dai bricc e non avevo mai messo i piedi su un aereo?)
«John Keats è un grande poeta inglese e ha scritto dei versi bellissimi per la ragazza che amava, ma che non poteva avere e che lui chiamava "Bright Star", stella luminosa... Lei poi si era sposata e aveva avuto due figli, ma non lo aveva mai dimenticato...»
«E non poteva sposarsela lui?»
«Erano altri tempi. Anche lei era promessa ad un altro...»
«Io non sono fidanzata con nessuno, però, te l'ho detto, voglio vivere quest'anno senza complicazioni e tornare in Italia prima di decidere... Insomma, dài! Hai capito... E poi abbiamo una vita davanti! Senti, da qui le vediamo le montagne quando decolliamo?»
«Quali montagne?»
«Ma come... "quali montagne"? Le Alpi, no, "le" montagne! Io vengo dalle montagne!»
I miei occhi neri erano tornati a lampeggiare fierezza e orgoglio: dopo dieci giorni di Olanda e terra piatta come il mare, le mie cime che si stagliavano nel cielo con i loro pennacchi di baiò:rda mi sembravano, nel ricordo, ancora più eleganti e maestose. Nella mente rivedevo il ghiacciaio d’Aurona opalescente e assonnato, le mirtillaie ottobrine rosse come vinacce e il tappeto di aghi di larice in cui affondavano i passi felpati quando, in autunno, si doveva abbandonare l’alpeggio. Riaprivo il pesante cancello della purtèia, che si spalancava ad ogni nuova stagione sul nostro paradiso, spaziavo verso i luccichii della Sfinge vicino al Vecchio Dormiente, scrutavo l'orizzonte filtrato dalla nebbiolina da ciaul che, nel caldo dei mattini d’estate, avvolge le casette di Cianciavero come un batuffolo d’ovatta... ma intanto la voce di Armin, timida e calda, mi riportava sull’aereo.
«No, da Parigi non le vedi le Alpi. Di dove sei tu, esattamente?»
«Già, che strano, ci siamo detti tanto, ma non da dove veniamo con precisione... Io da Domo, cioè, Domodossola, vicino al Passo del Sempione e tu?»
«Da Zollikon, Zurigo, abito proprio sul lago...»
«Che eri... "crucco"... lo avevo capito il pomeriggio in cui ti ho conosciuto. Hai bandierine svizzere dappertutto: sulla custodia della chitarra, sul quaderno di musica... Sembri un’ambulanza dell’American Field Service!»
«Qualcosa contro i "crucchi"?»
«Praticamente tutto, ma non sapevo che suonassero come angeli...»
L' "apparecchio" stava per decollare. Tavolini chiusi, cinture di sicurezza e...
«Hai paura?»
«No, ma tu ti prego togli la mano dai miei capelli, ti prego... o mi viene paura davvero...»
«Bright Star, appena torniamo, vado a coglierti la più bella edelweiss che ci sia sul Glarnish...»
«Cos'è un edelweiss?»
«Ma è un fiore! È "il" fiore delle nostre montagne! È bianca, morbida come il velluto... è...»
«Ma stai parlando delle stelle alpine? Senti "maestro", adesso basta: io non conoscerò l'inglese, Simon & Garfunkel, le ballate, il si settima e chi più ne ha più ne metta, ma almeno i fiori li conosco... Se in latino il nome è "leontopodium alpinum", la traduzione giusta sarà ben "alpine star", "alpine" qualche cosa... ma non "edelweiss", che parola più tedesca di così si muore!»
«Piccola, cocciuta Bright Star italiana: non provo neanche a spiegarti che in inglese si usa la stessa parola. Diresti che me la sto inventando. Quando torniamo, appena mi telefoni, ti porto questo "leonto..." e basta. O è vietato anche quello?»
Non era proibito allora raccogliere stelle alpine. Purtroppo. Si faceva solo attenzione a non strapparne la radicina. Ora lo è. Sono cambiate così tante cose... E molte che invece erano peccati mortali, azioni che ti facevano abbassare gli occhi ed arrossire solo al pensiero, ora non lo sono più. Alcune oggi sono addirittura consigliate dai medici, perché terapeutiche e preziose per un sano equilibrio psico-fisico. È semplicemente passato tanto tempo. Adesso ho una vita "indietro"...
Lui? Da più di quarant'anni coglie sul Glarnish, senza più cadere, la sua edelweiss "là dove non sfioriscono mai"... Io invece coltivo le mie stelle alpine. A Veglia, naturalmente.
La baita dei D’Andrea è sempre vicino alla sorgente di acqua minerale ferruginosa. È ancora uguale: lunga e stretta, incastonata nella montagna come uno smeraldo. Passando vicini sembra di essere appena arrivati, a dorso di mulo, e di doverla aprire e farla rifiorire al calore dell’estate. La rosa canina che il pastore Nando aveva piantato davanti alla salè:ta, di fianco alla stalla, è diventata un cespuglio grande e forte.
Nell’angolo esterno della cucina c’è il sasso su cui io e i miei fratelli avevamo inciso le nostre iniziali e una data: A.P. e F.P. 1954, O.P. 1957, e le mie eleganti cifre in corsivo maiuscolo: P.P. 16-08-57. Il lavandino di sasso sul fronte della casella dove ci lavavamo con l’acqua ghiacciata è secco. Le lamiere del lungo tetto orizzontale, fissate ai lati nel dosso scosceso e puntellate da tronchi all’interno per resistere al peso della valanga che si stende sull'insolita baita ogni inverno, sono un po’ arrugginite. Le finestrelle della parte superiore, come gli occhietti dei cervi nelle notti d’autunno, dominano tutta la conca e sbirciano verso il cielo nella calma cosmica della via lattea. I robusti antoni della stalla, rinforzati da catenacci ben serrati, sembrano ancora voler fermare le mucche impazzite dal rumore della tempesta che batteva sulle lamiere durante l’alluvione di san Giovanni, nell’agosto del ’58
Dalla finestra della cucina si intravede il grande camino dove la Tilde piangeva sommessamente e sbriciolava le foglie di ulivo benedetto, ripetendo a voce sempre più fioca, mentre i tuoni assordanti, misti ai tonfi dei grossi chicchi di grandine sul tetto, terrorizzavano bestie e persone: "Santa Barbara, san Scimùŋ, salvén da la lò:sna e ul trüŋ, santa Barbara, san Scimùŋ..."
Nell’angolo c’è il padellino bombato e tutto annerito del cafè dul pariulìŋ, la pentolina per il sugo e il forchettone con cui l’Anita ripescava le cipolle che non piacevano al suo Luigi. Il gigante buono arrivava al sabato e portava nel pesantissimo zaino il bollito per la domenica, le pesche, il mazzolino di prezzemolo, la tavoletta di cioccolato, i filettoni di baccalà, i pomodori da insalata, la "Settimana Enigmistica" e "le figurine" per me. Manca il foulard che la Margherita si metteva sui bei capelli ricci prima di mungere, ma il cup usato per scremare il latte è ancora lì, appoggiato al secchio che l’Orlando usava quando pelava le patate e cantava, sotto lo sguardo attento e vigile del Cicci, sempre scodinzolante e speranzoso di qualcosa di buono da mettere sotto ai denti.
Era una casella essenziale, povera di fronzoli, ma ricca di vita vera, di piccoli gesti quotidiani, quasi sacri e solenni nella loro scarna semplicità.
La mia baita di oggi, invece, è più "cittadina", anche se le pietre sono state recuperate e scalpellate a mano ad una ad una... Non ha però i doppi vetri e di notte riesco a sentire i campanacci delle mucche in lontananza. Mi cullano con ricordi dimenticati e, al mattino, mi dicono come sarà la giornata: bello se sono festosi e gioiosi, piovoso se il suono è pigro e assonnato. Ma è pur sempre una costruzione moderna, adatta ad ospitare tanti di quegli studenti stranieri che cantavano sul ponte della nave con i due montagnini.
Gli AFSers arrivano con le loro belle famiglie da ogni parte del mondo per scoprire dov'è questo benedetto "Alpe Veglia" di cui hanno sentito parlare tutta la vita, prima attraverso lettere che impiegavano quattro settimane ad arrivare, poi con aerogrammi e cartoline via aerea e "finalmente" con Internet e gli attachments. Vengono a luglio o agosto e restano incantati davanti ai miei fiori, che circondano la baita come una collanina di perle alabastrine.
Sono felici di conoscere mio marito e i miei figli e non riescono a capacitarsi di essere di fronte a migliaia di stelle alpine così vicine. Scattano foto, scattano, scattano... Mi chiedo cosa ne faranno. Io invece le raccolgo, le presso, ne faccio segnalibri da regalare e così le accarezzo ad una ad una.
Molti turisti passano dalla baita "Pia&Franco", sotto ai rifugi del CAI e del Lepontino. Qualcuno, anche se si trova a 1750 metri con piccozza e attrezzature da K2, domanda il nome di quei magici fiori. Io indosso un sorriso dolcemente divertito e spiego che si usa il latino 'leontopodium alpinum', derivato dal greco 'leontopódion', così definito per la somiglianza dei tondi cuscinetti centrali ai plantari della zampa di un leone. La disposizione delle morbide bratte fogliari ha invece determinato il nome in italiano e un tempo anche in francese e inglese: stelle alpine, étoiles des Alpes, silver stars... Nel nostro dialetto sono semplicemente štèll, così come in friulano stelutis... In tedesco invece ha prevalso l'immortale significato simbolico del fiore: edelweiss, che significa "nobile purezza"... ma ai giorni nostri... edelweis con una sola esse in spagnolo e edelweiss anche in francese e in inglese, soprattutto dopo il film The Sound of Music che, nel 1966, le ha globalizzate e rese famose persino in Africa.
Altri invece mi chiedono quale sia la più bella. Il sorriso allora sfuma leggero nel vento. Il mio sguardo si perde vago, assente, verso il ghiacciaio d’Aurona, ormai ridotto ad un fazzoletto terroso. So che la stella più bella, la più luminosa, la più vellutata, quella che quando mi piego per annaffiare si dondola a sfiorarmi i lunghi capelli, quella che mi tocca le dita gentilmente come fossero le corde di una Ramirez, la bright star che proprio non si può raccogliere... è sempre l' edelweiss di Armin, ma mi limito a sussurrare nel "suono del silenzio":
"I fiori più belli sono i fiori non colti".