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I PONTI DI GIAROLA : di Maria Pia Pallotta


Per gentile concessione della Casa Editrice “Il Rosso e il Blu” di S. Maria Maggiore (VB).
Il racconto, primo premio al Concorso Letterario 2011 “Andrea Testore-Salviamo la montagna ” è stato scritto da Maria Pia Pallotta Parlanti e pubblicato sul testo “Storie e Volti della Montagna”.


I ponti di Giarola


«Siccome mi restano pochi mesi, le ho portato la mia foto per il libro di Veglia!»

«Ma abbiamo già voglia di scherzare di primo mattino? E poi, quale libro?»

«È così purtroppo... ma lei un libro lo scriverà. Lei è studiata...»

Occhi furbi, enigmatici e sbefard come quelli di Armonica in “C’era una volta il West”. Riccioli sale e pepe, ancora folti, alla faccia delle chemio. Un sorriso di luce accecante in un volto abbronzato, bello come il sole. Due spalle forti come solo quelle dei muratori riescono ad essere. Le dita che sfiorano una guancia, in un gesto imbarazzato di tenero affetto “trattenuto” e una foto che sbuca dai pantaloni di velluto a costine, diventati già troppo larghi. Gli stipiti di sasso della porticina incorniciano una figura allegra, piena di voglia di vivere, scherzosa e simpatica da riscaldare il cuore.

«Ma come diavolo ha fatto a portare una macchina così sul ponte di Veglia?»

L’Italo non comperava le macchine. Le resuscitava. Si divertiva a prenderne una dal rutamat, la smontava, sostituiva i pezzi, ne aggiungeva altri fino a che l’ammasso di lamiere riprendeva vita. Come la sua mitica Giulietta gialla che rombava scoppiettante, avvolta nel fumo acre della marmitta, di proposito mai aggiustata. Questa della foto però era una semplice utilitaria grigia, anonima, senza doppia trazione. Solo lui poteva averla guidata sulla vèia di Veglia del ’92...
«Volevo fare un dispetto... lei sa a chi... lì, sul mio ponte...»
Era orgoglioso dei suoi ponti, costruiti a spese del parco, ma non secondo i progetti di fantomatici geometri che nulla conoscevano di Veglia e delle sue pericolose alluvioni.

Da piccolo una famiglia svizzera avrebbe voluto adottarlo per farlo studiare da ingegnere. Si capiva che aveva un’intelligenza pronta, fuori dal comune. Anche la Bianca ne era certa, ma non se l’era sentita di lasciarlo andare, nonostante le cinque bocche da sfamare da sola. Era cresciuto lavorando come manovale, ma affascinato da ponti, volte e campate romaniche. Accarezzava le pietre delle strutture antiche per penetrare e carpire i segreti architettonici di quella gente, che era riuscita a sconfiggere il tempo con le sue opere. Osservava i sassi, le venature, l’inclinazione, la distribuzione del peso, i giunti a secco di allora. Calcolava in base alle tecniche del ferro e cemento armato di oggi. Per Veglia doveva riuscire a dare il meglio di se stesso.

Era uno spirito libero. Lavorava quando, come e per chi voleva, magari poi facendo accendere i fari delle jeep per finire il ponte alle due di notte. Ma da solo. I suoi preventivi erano sempre IVA inclusa, bottiglie escluse. Le opere finite dei capolavori o degli obbrobri, a secondo del grado di simpatia dei committenti. Lo sapevano tutti, enti pubblici compresi. Il guaio era che certi lavori pericolosi li sapeva fare solo lui. Lui non faceva saltare i massi: li affettava. Non usava il ragno per sollevare pietre: le alzava. Non costruiva strade che negli anni avrebbero avuto bisogno di manutenzione. Tutto doveva essere eterno, come per i Romani, o meglio, come era solito declamare, a “sempiterna gloria”. Certo ci metteva il “suo” tempo e, non a caso, lavorando a Veglia, alle case Palowski dei Rosminiani, aveva trovato anche il modo di imparare un po’ di latino e raffinare l’italiano, cose di cui andava fiero.

«Ma era proprio necessario andare ad appendere la foto alla Ca' del Vino?
Con l’aria che tira, dopo l’attentato, le lettere e gli articoli del Velli...»

Ma lui era fatto così. Tutto preso a fare pazzie di “fine vita”, era riuscito a stupire e forse anche a divertire il suo male che, tra l’incredulità di più di un medico, aveva smesso di fargli perdere... pezzi del motore. La Pia lo aveva incontrato l’estate seguente sull’altro “suo” ponte vicino alla purtèia, smagliante di felicità come ogni volta che rimetteva piede al Veglia. Aveva ripreso con i lavori faticosi. Al Farello era diventato un’istituzione e poi c’era l’agriturismo della Balma... Alla sera scendeva perché il gattone rosso e la mamma, ormai quasi cieca, lo aspettavano sull’uscio della minuscola casetta della Colla. Il mattino dopo ripartiva fischiettante, la macchina fotografica nascosta nello zaino, pronta a rubare un fiore, un fungo, un riflesso iridescente tra gli aghi dei larici.

Altre quattro estati erano passate e “la fine della stagione” era vicina. Ormai eravamo a metà di un settembre più freddo del solito. I campanacci delle mucche erano un silenzio assordante, le mirtillaie fiammate di rosso, i büi ghirigori di ghiaccio, le finestre delle baite di Cianciavero occhietti assonnati al riparo di pesanti antoni. Il vento di baiò:rda soffiava crudo nel vallone. Solo Giarola saliva ancora ogni tanto per lavorare all’interminabile trasél.

Quel giorno, sotto al Piaggio, la moto, pazientemente riassemblata nei giorni d’estate piovosi, non andava più.

«Salve, Giarola! Lo sa che l’anno prossimo io e Franco partiamo per ristrutturare la baita, quella vicino al Lepontino?»

«Ma lì è tutta pietra vista...»

«Lo sappiamo... una sberla... ma per Veglia questo e altro... Lei ci sarà? Potrà anche dormire su se vuole...»

Lo sguardo aveva lampeggiato gioia, entusiasmo, fierezza competente...

«Allora, se ho un altro posto dove lavorare, posso anche finire lì dall’Arturo.

Oggi avevo deciso di andare a funghi, ma se riesco a far ripartire la moto vado a Veglia e mi do una mossa...»

Ma il motore non aveva voluto saperne. Destino... Era scivolato col suo cestino sul sentiero dei contrabbandieri, proprio dove trent’anni prima passava coi carichi di sigarette, dadi e cioccolato, mentre nella mente ricostruiva l’arcata di un ponte romanico. Sul fondo del torrente si adagiava piano un portafoglio sdrucito, con pochi soldi e un pezzetto di carta... Era per la Pia. Glielo aveva promesso, quel mattino di sole di cinque anni prima, su a Cianciavero.

Se vi va di trovare l'Italo, fate un salto al cimitero di Varzo, perché a Veglia non c’è un angolino per far riposare i folli innamorati dell'Alpe. La foto “del libro” è finita lì. Lui sorride sbefard con la mano alzata. Dal suo ponte saluta e ci ricorda che la vita è bella, sempre, comunque. Se no, fermatevi un attimo quando arrivate a piedi a Veglia e siete sui ponti di sasso, rimasti intatti a “sempiterna gloria”, come voleva lui. Immaginatelo quando guarda ironico le jeep passare al centimetro mentre gli autisti stramaledicono quel dosso di pietra che ha sì sfidato le alluvioni del ’99 e del 2000, ma che toglie visibilità all'altra parte del ponte.

«Chi non sa guidare, resti a casa sua...» Pare di sentirlo ancora...

La Pia bagna le sue stelle alpine nella baita finita da anni. Intorno manca sempre qualcosa: il selciato... il trasél di Giarola... Starà costruendo ponti dove non passano jeep... Le odiava e mai avrebbe voluto vedere il Veglia infestato da macchine come quella della foto data alla Pia per il libro che lei, prima o poi, avrebbe scritto. Eppure non amava i Verdi... Giarola era fatto così.



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