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LA VOLPE DI BISELLI : di Maria Pia Pallotta
La volpe di Biselli
Lara, - due anni appena compiuti, un pannolino indossato a mo’ di costume da bagno, un ciuccio spiaccicato penzolante come collanina, occhietti furbi e beffardi - era in attesa incantata, con altri piccoli, nelle vicinanze del negozietto di Biselli.
Aspettava la volpe che arrivava ogni sera, quando le ombre dei giganteschi larici vengono risucchiate dal buio stregato della notte e una nebbiolina lattiginosa sale dal torrente come zucchero filato, fino a sfilacciarsi appiccicosa tra gli aghi dei rami più bassi. La mamma le aveva spiegato che lo strano cane dalla bella coda rossiccia non veniva per il chupa chupa, ma per racimolare gli avanzi della cena dei due anziani gestori, non ancora stanchi di una lunga vita di sacrifici perché troppo innamorati di Veglia.
Il Veglia era l’alpeggio fatato ai piedi del Monte Leone dove giorni prima Lara era salita, portata in spalla nello zainetto del papà, con il fratellino. tenuto stretto per mano dalla mamma e orgoglioso di trotterellare nei suoi scarponcini di Cars L’attesa era spasmodica, estenuante, soprattutto per dei bimbetti assuefatti a schiacciare un telecomando e vedere ogni tipo di cartone animato con esplosioni, ammazzamenti, luci accecanti, sparatorie e quant’altro. Il niente, il buio e il silenzio erano un’assoluta novità carica di magiche aspettative, di malcelato timore, di cauta supponenza, di occhiate curiose ora verso il bosco ora verso il ponte. La domanda era stata posta in un bisbiglio reverenziale, come se il muretto sbrecciato dietro cui i bambini si nascondevano per spiare fosse stato il banco di una chiesa. Le mammine, già meno taciturne dei pargoli, avevano sorriso divertite con occhiate d’intesa: “Questa promette bene!” Lara, poco soddisfatta della risposta e ancor più dell’ingiustizia per cui la volpe non pagava e lei sì, aveva ricacciato il ciuccio in bocca, anche per allentare la paura dell’oscurità.
Ormai, dopo tre giorni, la piccina era pratica di Veglia e conosceva le cose del mondo: senza soldino niente chupa chupa. Con una moneta sì, ma guai a scartare il lecca lecca senza prendere e tenere ben stretto nella manina paffutella lo strano foglietto bianco. Una volta l’aveva anche assaggiato quello che i grandi chiamavano “scontrino fiscale”, panacea di tutti i problemi economici italiani, soprattutto per un micro negozio di alta montagna, aperto tre soli mesi l’anno e rifornito da una jeep stracarica, che rischiava di ribaltarsi a ogni curva sulla pericolosa e impervia sterrata detta veja. Il biglietto era amaro e non si scioglieva in bocca: un vero schifo.
Non ne capiva l’utilità. Neppure i grandi comprendevano come si potesse applicare lo stesso trattamento fiscale dei negozi di città a un emporio così minuscolo. La bottega, quasi un servizio sociale per i duecento abitanti estivi dell’alpe e gli appassionati di alta montagna, era una realtà economica che avrebbe dovuto essere incoraggiata con sgravi totali e non vessata con richieste persino di punto Pos là dove il telefono funziona un giorno sì, un giorno no e una settimana ancora no... ma la legge è uguale per tutti. Diamine, si sa che l’Italia ha un enorme debito pubblico che può essere risanato solo dalle multe appioppate per il mancato scontrino dei chupa chupa! La volpe si era abituata a “passare dal negozio” nelle fredde sere di giugno, quando nessun turista circolava nella piana e i due negozianti si sedevano, complici e muti, accanto a una flebile e modesta luce azzurrognola emanata da una lampada a pannellino solare. La bestia si avvicinava guardinga con lunghe pause tra gli epilobi non ancora in fiore e, con guizzo fulmineo, afferrava il suo pezzetto di pancetta o la costina non scoticata a fondo. Un attimo d’incertezza, dibattuta tra il folle desiderio di fermarsi a masticare il boccone dal profumo inebriante e l’atavica diffidenza verso gli uomini, poi un tuffo veloce nel buio della notte tra i giallastri savoi, il verde smeraldo delle lavazze, i rametti bruni delle eriche, le pungenti foglioline di ortica e i puntinelli rossastri dei rododendri ancora in bocciolo.
Ogni sera il rito si ripeteva, anche se la volpe tardava sempre più ad arrivare, infastidita e spaventata dalle voci e dalle pile dei turisti in passeggiata. Spesso i bimbetti la vedevano solo nei loro sogni, quando finalmente le mamme potevano rilassarsi e trovare il tempo persino di andare in L’estate era trascorsa in un baleno. A settembre i pastori erano scesi, i campanacci delle mucche un silenzio assordante, i camini di pietra delle casupole si erano spenti a uno a uno, gli occhietti delle finestre sbarrati dai pesanti antoni dell’inverno, i bui ghiacciati delle fontane di legno svuotati. Il negozio, baluardo dell’alpe, chiuso, anche perché non sarebbe risultata credibile la mancanza di scontrini fiscali per intere giornate. La famigliola era tornata all’alpe una domenica pomeriggio, quasi per dare un arrivederci a quel mondo affascinante che era riuscito a disintossicare i piccoli dall’eccessivo attaccamento agli oggetti elettronici, a qualunque cosa che potesse avere il riverbero di uno schermo, fosse solo l’accordatore della chitarra o il contaminuti del microonde. Sulla strada del ritorno, il papà guidava attento, la mamma lasciava ciondolare il capo stancamente, trattenuta dalla cintura di sicurezza, Lara e il fratellino erano lì lì per crollare addormentati. Di colpo una paletta e una leggera frenata per fermarsi proprio in coda a una Subaru uguale alla loro. Il tempo di dare un’occhiata al portellone posteriore aperto, intravedere un cervo morto e ripartire subito, al perentorio cenno delle guardie forestali.
Avevano pronunciato la frase all’unisono, con una smorfia disincantata di tristezza mista a compassione, non solo per l’animale ucciso ma anche per i due cacciatori, miseri superuomini paranoici dal sorriso borioso, pieni di complessi mai affrontati e sparati addosso a un cervo indifeso, bambocci orgogliosi di mostrare i palchi del cervo alle loro dame dai risolini striduli, infiocchettate come alberi di Natale in abiti stretti, preoccupate di non mostrare a sufficienza quello che volavano far credere di non dover mettere in vista...
Lara si era ridestata e aveva estratto con forza il ciuccio dalle labbra: “Papà, papà, “No, stai tranquilla. La volpe è su nella tana con i suoi volpacchiotti. Questo era un cervo. Tu non l’hai mai visto. È un animale grosso, con delle corna grandi che si chiamano palchi... e questo ha pagato, altro che se ha pagato!” L’ultima frase l’aveva pronunciata a se stesso, a voce bassissima, senza tenere conto che le pesti dagli occhi furbetti captano tutto. Lara si era sentita rincuorata:
finalmente un po’ di giustizia! La volpe, sciao, pazienza, quella non pagava, ma almeno quest’altra bestia aveva pur dovuto cacciare il suo soldino!
“Papà, e il fupa fupa gli piafeva?”